Protesi e tumori, in una sala operatoria su tre si rischia la vita per inesperienza dei medici

Nei nostri ospedali ci si cura un po’ meglio e, a sorpresa, anche al Sud. Ma in circa una sala operatoria su tre si rischia la pelle perché si fanno pochi interventi e non si accumula l’esperienza necessaria per affrontare imprevisti ed emergenze.

A misurare lo stato di salute dei nosocomi italiani sono i 166 indicatori che ne misurano le performance elaborati dal Piano nazionale esiti (Pne) dell’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali.

«Il miglioramento di tutti i principali indicatori assume un particolare rilievo di fronte agli effetti ancora evidenti della recessione che ha colpito l’Europa nel 2007, facendo aumentare l’esposizione a fattori di rischio, con conseguenze sia in termini di ricorso ai servizi che di mortalità», commenta il Direttore generale dell’Agenas, Francesco Bevere, dando così maggior lustro ai numeri del Pne.

Il rapporto conferma che i nostri ospedali sono anche sopra gli standard europei quando a fare la differenza è la bravura dei medici. Meno se a contare è l’organizzazione. Come nel caso della riduzione della frattura al collo del femore sopra i 65 anni, che va fatta entro 2 giorni per evitare invalidità permanenti se non peggio. Ebbene, l’intervento è tempestivo per il 58% dei pazienti quando lo standard internazionale dice 80. Anche se un bel miglioramento c’è stato rispetto al 2010, quando a beneficiare dell’operazione in 48 ore era solo il 31% dei ricoverati. Ma parliamo di medie del pollo perché poi ogni ospedale fa storia a se, anche all’interno della stessa regione. Ad esempio in Lombardia c’è chi fa presto in quasi tutti i casi e chi rispetta lo standard per meno del 15% dei pazienti. A dimostrazione che in certi casi l’efficienza non dipende tanto dalle politiche dei tagli, quanto dalle capacità organizzative.

Stesso discorso vale per i parti cesarei. Se ne fanno meno, visto che nel 2010 erano il 29% ed ora sono il 24,5%, ma siamo ancora distanti dalla soglia del 15% indicata come giustificabile dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità.

Tutta un’altra storia quando entra in campo la bravura dei nostri camici bianchi. Come nel caso dell’infarto acuto del miocardio, per il quale i già bassi tassi di mortalità a 30 giorni sono scesi in sei anni dal 10,4 all’8,6%, collocandoci al secondo posto tra i Paesi Ocse, dietro solo al Canada. Discorso analogo vale per l’ictus ischemico, dove la mortalità a un mese del 10,9% è in diminuzione e in linea con i valori dei Paesi più sviluppati. Buona anche la presa in carico da parte dei servizi territoriali per malattie croniche come diabete, asma, insufficienza cardiaca congestizia e Bpco, per le quali si ricorre meno al ricovero in ospedale di quanto non avvenga in larga parte dei Paesi Ocse.

Le note dolenti arrivano però quando si getta lo sguardo sullo spezzatino di sale operatorie. Che sia frutto della lobby dei Primari chirurghi pronti a mostrare le unghie pur di mantenere reparto e galloni o semplice mala organizzazione, fatto è che ancora in troppe chirurgie si fanno così pochi interventi da mettere a rischio la vita dei pazienti. Per acquisire esperienza sufficiente ad operare il tumore al polmone, ad esempio, bisognerebbe fare almeno 70 interventi l’anno ma solo il 35% delle strutture supera questa quota, a partire dalla quale i tassi di mortalità scendono in picchiata. Nel tumore alla mammella il rischio di reintervento diminuisce dove si fanno più di 150 interventi l’anno, ma solo una chirurgia su quattro è nello standard di sicurezza. Stesso discorso vale per il tumore allo stomaco dove lo standard di 20 interventi l’anno lo raggiunge appena il 25% delle strutture. Senza contare quelle, come il Policlicino Umberto I di Roma, che complessivamente quel numero di interventi lo supera anche, salvo poi dividerli per una decina di chirurgie, nessuna negli standard di sicurezza. E il problema si verifica anche per cose meno gravi come le artoplastiche al ginocchio, all’anca e alla spalla, per le quali non si rischia la vita ma di riandare sotto i ferri si.

Migliora invece la situazione per i punti nascita. Quelli pericolosi, dove se vedono meno di 500 nuovi nati l’anno sono oramai solo 97, il 21% del totale che effettua appena il 5,7% dei parti. Un progresso avvenuto con buona pace di chi antepone la logica del campanile a quella della medicina.

Fonte: Protesi e tumori, in una sala operatoria su tre si rischia la vita per inesperienza dei medici

Fonte: La Stampa Italia